CLAUDE LEVI-STRAUSS

ANTROPOLOGIA STRUTTURALE

Il Saggiatore, Milano 1967

Le citazioni sono tratte dall'edizione tascabile (NET) del 2002,facilmente reperibile

PREMESSA

E' difficile, per me, recensire quest'opera prescindendo dall'impatto ch'essa ha avuto nella mia formazione culturale. La prima lettura, che risale al 1969, fu una rivelazione. Nonostante il riferimento, costante nel libro, allo spirito umano, che accettai solo nei termini di una programmazione psicobiologica vincolante e informante l'attività psichica individuale e collettiva, l'esigenza di dare alle scienze umane e sociali uno statuto scientifico mi sembrava riproporre in modo affascinante lo stesso intento espresso da Marx, da Weber e dai nuovi storici francesi che cominciavo a conoscere. L'originalità di Lévi-Strauss consisteva nel non limitarsi ad esprimerla, ma nel prenderla radicalmente sul serio nell'intento di fondare un metodo, assumendo come modello di riferimento la linguistica.

Certo, il mio oggetto di studio era la psicopatologia non l'antropologia culturale - per quanto il rapporto tra queste due discipline mi sembrava già allora più intimo di quello che comunemente si pensava. La possibilità di applicare il metodo strutturalista ai fenomeni psicopatologici si fondava su di un solo dato, già chiaro: l'invarianza della struttura dei conflitti psicodinamici in opposizione alla straordinaria varietà dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti psicopatologici. Era altrettanto chiaro che quell'invarianza, per cui è sempre in questione il rapporto tra io e altro, volontà propria e volontà altrui, integrazione sociale e individuazione, ha un aspetto sincronico e uno diacronico. Intanto i conflitti si definiscono psicodinamici in quanto essi evolvono nel corso del tempo e, talora, vanno incontro a più o meno rapide ristrutturazioni. L'applicazione alla psicopatologia del metodo strutturale non poteva avvenire dunque che in nome di uno strutturalismo dinamico. Fu la conoscenza dell'opera di Renée Thom che m'indusse a ritenere possibile un'integrazione tra strutturalismo e dialettica, vale a dire tra approccio sincronico e approccio diacronico ai fenomeni psicopatologici. In quest'ottica, i sintomi potevano essere assunti come un fascio di trasformazioni esplicabili in rapporto all'attività del conflitto, la cui matrice è appunto invariante.

Ma l'invarianza in questione, per quanto di ordine strutturale, in quanto riconducibile all'opposizione di funzioni (il Super-io e l'io antitetico) in gran parte inconsce, mi appariva di ordine universale non atemporale. Ovunque si dia conflitto, nel tempo e nello spazio, i poli del conflitto si riconducono ai doveri sociali e ai diritti individuali. Sia gli uni che gli altri, sulla base di una programmazione genetica universale, che fa capo ai bisogni intrinseci, si definiscono però in maniera diversa a seconda dei diversi contesti storico-culturali. L'incidenza dell'ambiente sociale rappresenta dunque l'aspetto dialettico della teoria.

Il tramonto dello strutturalismo, avvenuto in conseguenza della pretesa di applicarlo ai campi più svariati (come la letteratura, la moda, la pubblicità ecc.), non ha modificato minimamente il mio modo di pensare. Ritengo anzi che, in ambito psicopatologico più ancora che in quello culturale, lo strutturalismo (dinamico) possa venire ad essere confermato come metodo scientifico, posto naturalmente che le leggi dello spirito vengano ricondotte a vincoli psicobiologici e psicodinamici.

Mi è difficile non rievocare anche un ulteriore spunto di riflessione che trassi dalla lettura. Nel decimo capitolo Lévi-Strauss descrive un rituale in virtù del quale un parto difficile giunge a realizzarsi. La singolarità del rituale, praticato da uno sciamano, sta nel fatto che questi drammatizza l'evento del parto ricostruendolo mitimicamente come una lotta della vita, e di tutta la comunità partecipe, contro le forze del male che ad esso si oppongono.

All'epoca, impegnato in una ricerca psicosomatica, frequentavo spesso il reparto di ostetricia. La lettura mi offrì l'occasione di dedicarmi ad un'analisi culturale comparata. Fu immediatamente chiaro quanto, all'epoca, fosse irragionevole l'asettica medicalizzazione di un evento sì naturale ma di grande impatto affettivo; quanto ci fosse d'inconsapevolmente disumano nell'isolamento delle partorienti dai familiari, nel loro dover sopportare le doglie in angusti e grigi ambienti con l'unico supporto di infermiere che, in caso di urla, ripetevano i soliti luoghi comuni (non sei la prima, t'è piaciuto far l'amore, ecc.). Capii insomma perché la naturalizzazione e la medicalizzazione del parto produceva più distocie dinamiche e più cesarei che in qualunque comunità di primitivi. Scrissi anche un lavoro riguardo a questo che è andato perduto.

 

2.

Nella Prefazione, Lévi-Strauss cita, condividendolo, il giudizio espresso a suo riguardo da Jean Poullion: "Lévi-Strauss non è certo il primo, né il solo, a sottolineare il carattere strutturale dei fenomeni sociali, ma la sua originalità sta nel prenderlo sul serio e nel trarne imperturbabilmente tutte le conseguenze" (p. 21).

Tra i fenomeni sociali che possono essere indagati, Lévi-Strauss ha operato una scelta di campo, dedicandosi a quelli che concernono società diverse dalla nostra, impropriamente definite primitive. Tale scelta è significativa perché pone immediatamente in luce un carattere che né la storia né la sociologia colgono immediatamente: l'impossibilità di spiegare quei fenomeni senza ammettere per principio che la loro matrice sia inconscia. Certo, "anche nella nostra società, le buone maniere a tavola, gli usi sociali, le regole del vestirsi e molti altri atteggiamenti morali, politici e religiosi, sono osservati scrupolosamente da ciascuno, senza che la loro origine e la loro funzione reali siano state oggetto di ponderato esame. Agiamo e pensiamo per abitudine, e l'inaudita resistenza opposta a deroghe, sia pure minime, deriva più dall'inerzia che da una volontà cosciente di mantenere usanze di cui si capisca la ragione" (p. 31). Se questo è vero per la nostra società, e richiederebbe che anche la sociologia e la storia (come peraltro è avvenuto per merito dei nuovi storici francesi), si aprano allo studio dei fattori inconsci, per culture diverse dalla nostra, che vivono rispettando scrupolosamente regole, norme e valori le cui origini storiche si perdono nella nebbia di un passato che non può essere ricostruito in assenza di documenti, per l'antropologia si tratta di una necessità assoluta.

Ma di quale inconscio parla Lèvi-Strauss? Evidentemente non di quello individuale e neppure di quello collettivo junghiano, bensì di un inconscio formale, logico che sottende e rappresenta la matrice strutturale dei fenomeni sociali: "Se, come crediamo, l'attività inconscia dello spirito consiste nell'imporre forme a un contenuto, e se queste forme sono fondamentalmente le stesse per tutti gli individui, antichi e moderni, primitivi e civili, - come dimostra, in modo folgorante, lo studio della funzione simbolica, così come si esprime nel linguaggio - è necessario e sufficiente raggiungere la struttura inconscia soggiacente a ogni istituzione e a ogni usanza per ottenere un principio d'interpretazione, valido per altre istituzioni e altre usanze, purché, beninteso, si spinga l'analisi abbastanza lontano" (pp. 33-34). Questo presupposto metodologico segna il discrimine tra storia e antropologia, e assegna a quest'ultima un funzione epistemologica che la prima non può avere: "L'etnologia non può rimanere indifferente di fronte ai processi storici e alle espressioni più profondamente coscienti dei fenomeni sociali. Ma, pur prestando loro la stessa attenzione appassionata dello storico, tende, con una specie di marcia regressiva, a eliminare tutto ciò che essi devono all'avvenimento e alla riflessione. Il suo scopo è di raggiungere, al di là dell'immagine cosciente e sempre diversa che gli uomini si fanno del loro divenire, un inventario delle possibilità inconsce, il cui numero non è illimitato; e di cui il repertorio, e i rapporti di compatibilità o incompatibilità che ognuna mantiene con tutte le altre, danno un'architettura logica a sviluppi storici che possono essere imprevedibili, senza mai essere arbitrari" (pp. 35-36).

Illuminare l'architettura logica, la struttura inconscia che sottende i fenomeni sociali nella loro indefinita varietà è dunque l'obbiettivo ultimo dell'antropologia strutturale. Obbiettivo indubbiamente ambizioso, che Lèvi-Strauss persegue avendo come modello la linguistica, e in particolare la fonetica, che ha portato per la prima volta una scienza sociale - il cui oggetto, la lingua, è estremamente eterogeneo - a identificare un ordine logico al di sotto di un apparente disordine: "la fonologia ha, nei confronti delle sceinze sociali, lo stesso compito rinnovatore che la fisica nucleare, per esempio, ha avuto per l'insieme delle scienze esatte. In che cosa consiste questa rivoluzione, se cerchiamo di vederla nelle sue implicazioni più generali? L'illustre maestro della fonologia, N. Trubeckoj, ci darà la risposta a questa domanda. In un articolo-programma, egli riduce, in sostanza, il metodo fonologico a quattro procedimenti fondamentali: in primo luogo, la fonologia passa dallo studio dei fenomeni linguistici coscienti a quello della loro infrastruttura inconscia; rifiuta di considerare i termini come entità indipendenti, prendendo invece come base dell'analisi le relazioni tra i termini; introduce la nozione di sistema: "la fonologia attuale non si limita a dichiarare che i fonemi sono sempre membri di un sistema, ma mostra sistemi fonologici concreti e mette in evidenza la loro struttura"; infine mira alla scoperta di leggi generali, sia trovate per induzione, "sia… dedotte logicamente, il che conferisce loro un carattere assoluto" (p. 47).

Lèvi-Strauss ritiene che lo stesso metodo, mutatis mutandis, possa essere applicato ai fenomeni sociali, a partire dai sistemi di parentela: "Come i fonemi, i termini di parentela sono elementi di significato; anch'essi acquistano un significato solo a condizione di integrarsi in sistemi; i sistemi di parentela come i sistemi fonologici sono elaborati dall'intelletto allo stadio del pensiero inconscio; infine la ricorrenza, in regioni del mondo tra loro lontane e in società profondamente differenti, di forme di parentela, regole di matrimonio, atteggiamenti ugualmente prescritti tra certi tipi di parenti, ecc., induce a credere che, in entrambi i casi, i fenomeni osservabili risultino dal giuco di leggi generali ma nascoste" (pp.48-49). L'analisi che Lèvi-Strauss fa dei sistemi di parentela porta di fatto ad identificare l'ordine soggiacente all'apparente disordine. Tutti i sistemi di parentela sono riconducibili ad una struttura "in cui quattro tipi di parentela sono presenti e organicamente correlati, cioè fratello/sorella, marito/moglie, padre/figlio, zio materno/figlio della sorella" (p. 57); "questa struttura poggia su quattro termini (fratello, sorella, padre, figlio), uniti tra loro da due coppie di opposizioni correlative, e tali che, in ciascuna delle due generazioni in causa, esiste sempre una relazione positiva e una negativa" (p. 59). Quale può essere il senso di questa struttura? La risposta è che questa struttura è la struttura di parentela più semplice che si possa concepire e che possa esistere: "è, più precisamente, l'elemento di parentela" (p. 59). Il suo carattere irriducibile "risulta infatti, in modo immediato, dall'esistenza universale della proibizione dell'incesto. Tale proibizione equivale a dire che, nella società umana, un uomo non può ottenere una donna se non da un altro uomo, che gliela cede sotto forma di figlia o di sorella. Non c'è dunque bisogno di spiegare come lo zio materno faccia la sua apparizione nella struttura di parentela: non vi appare affatto, vi è immediatamente dato, ne è la condizione" (p. 61).

Ogni sistema di parentela serve dunque a permettere lo scambio delle donne tra i gruppi, assoggettandolo a regole precise che si riconducono però tutte alla stessa legge universale, per cui quello scambio deve avvenire perché la società si perpetui.

Metto tra parentesi a questo punto le critiche mosse a Lévi-Strauss dalle femministe e da intellettuali di sinistra che, nello scambio delle donne, hanno identificato una condizione storica di assoggettamento delle donne al potere maschilista. In effetti, ritenere atemporale, e dunque necessaria, una legge semplicemente perché essa ha agito per un numero sterminato di secoli non è del tutto ragionevole. L'elemento di parentela identificato da Lévi-Strauss però esiste realmente, e ciò significa ch'esso corrisponde di fatto ad una logica inconscia.

Il problema in realtà è un altro, e Lèvi-Strauss lo affronta lucidamente: "Ciò che generalmente si chiama sistema di parentela comprende, effettivamente, due ordini diversi di realtà. Ci sono, prima di tutto, i termini con i quali si esprimono i vari tipi di relazioni familiari, ma la parentela non si esprime soltanto in una nomenclatura: gli individui o le classi d'individui che adoperano i termini, si sentono (o, secondo i casi, non si sentono) tenuti, ciascune nei confronti degli altri, ad una condotta determinata: rispetto o familiarità, diritto o dovere, affetto o ostilità. Perciò, accanto a quello che proproniamo di chiamare il sistema degli appellativi (e che è, più propriamente, un sistema di vocabolario), c'è un altro sistema, anchìesso di natura psicologica e sociale, che designeremo come sistema degli atteggiamenti" (p. 51). Inoltre, "il sistema degli atteggiamenti elementari comprende almeno quattro termini: un atteggiamento di affetto, di tenerezza e di spontaneità; un atteggiamento risultante dallo scambio reciproco di prestazioni e di contro prestazioni; e, oltre a queste relazioni bilaterali, due relazioni unilaterali, corrispondenti l'una all'atteggiamento del creditore, l'altra a quella del debitore. In altre parole: mutualità; reciprocità, diritto; obbligo" (p. 64).

Lèvi- Strauss sembra non rendersi conto che, mentre il sistema degli appellativi, è un sistema formale, quello degli atteggiamenti ha un'implicanza più vasta: esso infatti tende a regolare i rapporti sociali vincolando le emozioni dei soggetti a doveri inerenti al ruolo che essi hanno nel sistema. Perché questo aspetto è importante? Perché esso introduce, nello studio dei fenomeni sociali, una variabile che non ha alcun peso a livello di fonologia: l'emozionalità, che ha aspetti coscienti e aspetti inconsci. La logica che Lévi-Strauss esplora a livello di sistemi di parentela esiste nella misura in cui essa deve assicurare lo scambio delle donne, l'imparentamento dei gruppi e la rirpoduzione sociale. In nome di ciò, essa però non deve solo attribuire un appellativo e un ruolo ad ogni soggetto all'interno del sistema, ma anche promuovere un atteggiamento emozionale che sia adeguato a quel ruolo e alla sua funzionalità. E' a questo livello che le esigenze di coesione e d'integrazione sociale vengono ad urtare, più o meno gravemente, con il problema della soggettività. E' il conflitto tra i doveri di ruolo o normativi propri di una determinata società e la concreta esperienza dei soggetti a rappresentare l'elemento dinamico dell'evoluzione culturale. Se si danno dunque leggi logiche che sottendono i fenomeni sociali, e che fanno capo all'inconscio formale, esistono nondimeno leggi inerenti l'emozionalità umana, che sono esse stesse rappresentate a livello inconscio. Il grado di compatibilità o incompatibilità tra questi due livelli sembra, ai fini della comprensione dei fenomeni sociali, più importante delle leggi logiche che Lévi-Strauss si è sforzato di mettere a fuoco.

3.

L'importanza di quest'ultimo aspetto sarebbe difficile da minimizzare. E' vero che i doveri di ruolo sono estremamente corcitivi presso le culture primitive, laddove l'equilibrio e la coesione del gruppo è infinitamente più importante del benessere o dell'autorealizzazione del singolo individuo. Il problema, quale si ricava quotidianamente dall'analisi, è che essi continuano ad esercitare un effetto ipnotico sulla soggettività, attraverso la mediazione del Super-io. Le leggi universali dello spirito umano, cui si è rivolta insistentemente la ricerca di Lévi-Strauss, sembrano dunque avere due significati: per un verso, esse sicuramente hanno rapporto con i vincoli cognitivi propri dell'apparato cerebrale o della mente umana (da questo punto di vista lo strutturalismo è una forma di kantismo aggiornato e rispettabile); per un altro verso, esse sembrano funzionali all'equilibrio e alla coesione del gruppo a discapito della concreta esperienza soggettiva.

In breve, ciò che Lévi-Strauss ha scoperto è che l'integrazione sociale è un valore primario all'interno di ogni cultura, e che esso non può realizzarsi se non definendo delle regole di comunicazione e di scambio reciproco. Ciò che è stato indotto a trascurare è che, in rapporto alla natura umana, quel valore non è univoco poiché deve fare i conti con il bisogno d'individuazione in nome del quale un soggetto, a livello spesso inconscio, rivendica non solo di avere un ruolo, ma di parteciparlo, di viverlo e, in alcuni casi, di opposrsi ad esso.

Il logicismo di Lèvi-Strauss riconosce come limite il dare troppo peso a ciò che è buono da pensare, nel senso che permette ad una società di persistere e di riprodursi, e nell'ignorare il peso dei fattori emozionali, che non è di minore importanza perché fa capo a ciò che è buono da vivere.

L'inconscio come forma vuota, logica, presumibilmente esiste; ma esiste anche l'inconscio come dimensione carica di emozionalità incentrata sul rapporto tra l'io e l'altro.

L'omissione è tanto più rilevante se si tiene conto del dramma soggettivo che Lévi-Strauss espone nel nono capitolo. Si tratta della storia di Quesalid, un giovane scettico sui poteri stregoneschi, che si fa allievo dei maghi per smascherarne i trucchi. Un illuminista - si direbbe - ante litteram. Egli di fatto capisce che di trucchi si tratta, ma, avendoli appresi, scopre che essi funzionano, perché la gente che si affida a lui sorprendentemente guarisce. Egli, nel quale è prepotente un bisogno d'individuazione che lo porta a credere ciò che è ragionevole credere, alla fine cede alla pressione del gruppo che gli impone di continuare a praticare le sue arti magiche. Il ruolo di stregone non coincide con quello che egli sente veramente - il rifiuto dell'irrazionalità e della superstizione -, ma cionondimeno il ruolo imposto dal gruppo, nel quale si è calato con tutt'altro intento, diventa il suo ruolo.

Gli uomini insomma non sono enti logici. L'inconscio formale, che pensa attraverso di loro, deve comunque fare i conti con i loro bisogni, le loro aspirazioni, le loro paure. Il progetto di uno strutturalismo puramente logico non ha senso se prescinde dalla conflittualità intrinseca alla natura umana. Tenerne conto significa per forza andare al di là di Lévi-Strauss e giungere ad uno strutturalismo dinamico.

Ottobre 2003